Il 50° Rapporto Censis sulla situazione del Paese ha un punto centrale: l’apertura di una pericolosa “faglia”

  tra potere politico e corpo sociale e il soggetto che in passato è riuscito a svolgere una funzione di “cerniera”, cioè le istituzioni, non riesce o non è messo nelle condizioni di farlo. Il messaggio di Giuseppe De Rita, secondo la UIL di Basilicata, non è nuovo specie dopo il suo viaggio, nell’estate scorsa, a Matera ed a Potenza al termine del quale ci ha affidato una nuova carta di navigazione per la Basilicata che si apre e proietta il senso della sua identità nelle relazioni e connessioni del “nuovo”.Allo stesso modo, non è una novità del nostro tempo la presenza di un’élite politico-economica all’interno della nostra società. Quel che diventa inaccettabile, secondo De Rita, è l’idea che questa élite possa prescindere dal corpo sociale perché dipende da altri fattori siano essi esterni (basti pensare alla finanza internazionale) o interni (il raggiungimento e la conservazione dei propri obiettivi di potere). A questo processo il corpo sociale reagisce puntando tutto sulla propria autonoma capacità di “reggersi”, prescindendo a sua volta dalla presenza di strutture politiche e istituzionali. Questo duplice arroccamento fa emergere la mancanza della funzione di “cerniera”, cui sarebbero adibite le istituzioni, a cui il potere politico ed il corpo sociale dovrebbero avere il coraggio di restituire un nuovo ruolo se vogliono provare a uscire dall’impasse. La politica riafferma orgogliosamente il suo primato progettuale e decisionale, mentre il corpo sociale rafforza la sua orgogliosa autonomia nel «reggersi». Sarebbe il momento giusto di dare, coraggiosamente, un nuovo ruolo alle troppo mortificate istituzioni. Qui si potrebbe usare anche una parola nobile come mediazione se essa non fosse diventata, nel linguaggio corrente, sinonimo di intrallazzo, compromesso al ribasso, filtro burocratico, corruzione. Meglio, allora, il termine usato oggi dal fondatore del Censis: “fare giunture”. Perché in un corpo – anche nel corpo sociale – le giunture connettono tra loro le diverse parti e le fanno funzionare in modo armonico. Le giunture non sono un freno al movimento, ma al contrario sono quelle che lo trasmettono in modo utile e coordinato. Dunque abbiamo urgente bisogno di “fare cerniere”, di “fare giunture”. Potremmo aggiungere, con una terminologia che ci è diventata familiare, “fare ponti” invece che costruire muri.

Dovremmo chiederci sulle volte che il nostro riformismo si è inclinato sul piano della neutralità. Un piano inaccettabile per un campo di battaglia che invece pretendeva posizioni chiare e nette per il nuovo corso del futuro. Eppure le nuove questioni dello sviluppo, della crescita, dei lavoratori erano lì che attendevano di essere interpretate nel modo giusto e col coraggio giusto, senza avere più quella marginalità cognitiva con cui colpevolmente abbiamo camminato perfino dentro una delle crisi più lunghe e drammatiche dell’Italia.

In questo suo particolare stato d’intontimento il sindacato ha perso molte delle ragioni della sua competitività sociale. Ad esempio la capacità di visione e di rappresentazione sulle questioni più urgenti che avvolgevano il Paese dentro spirali a dir poco concatenate. Scorgere, anticipandoli e rappresentarli in maniera organizzata, in tutti questi lunghi anni, ha segnato lo stato di buona salute del sindacato. La sua vicinanza con il valore incondizionato delle grandi questioni collettive in cui si riconosceva il destino di un intero Paese. Sappiamo, invece, che la narrazione del sindacato è stata altra. E’ stato percepito e giudicato fuori dalla piazza, lontano dagli umori positivi ed innovativi che scuotevano l’immobilismo di Stato, quasi arroccato in una sua perfetta ed impenetrabile torre d’avorio, da cui lanciare superficiali occhiate sul dorso del cambiamento. Ecco perché, allora, è necessario che si rinunci alla neutralità. Sta già qui la nuova missione del sindacato. Non essere più come è stato. Dunque occorre dare un nuovo senso al sindacato. Ed un nuovo senso non può che essere quello della ripresa del riformismo, un luogo del fare operoso dove le questioni del Paese sono assunte come nuovo impegno e nuova responsabilità per la missione moderna e avanzata del sindacato. Il riformismo è una scelta talvolta scomoda. Una scelta ad oltranza. E non è il luogo della neutralità, il riformismo. La sua osservanza, piuttosto, non non è solo un obbligo, un dovere ma è soprattutto un abitudine, un volere.

La cosa più pericolosa per il sindacato è avere neutralità sul riformismo che è invece un formidabile campo di battaglia per difendere diritti, merito, eticità, regole. Ci vuole coraggio, non paura per difendere il riformismo e ci vuole libertà non dipendenza per difendere il riformismo. Il riformismo è un fronte unito e compatto che riguarda proprio tutti e da cui nessuno dovrebbe tirarsi indietro. Il riformismo inoltre è un buon antidoto al male attuale che assedia anche il sindacato: quello della democrazia dissociativa, fatta di decisioni solitarie, di oligarchie e potentati che si contendono spazi, carriere, privilegi e che considerano il valore del pluralismo solamente un intralcio. Senza il ritorno nei luoghi del fare e del lavoro la possibilità di riscatto e di cambiamento del sindacato rimane compromessa.

 

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