La discontinuità in Acquedotto Lucano è una questione di dignità politica istituzionale

A fronte del disastro nella gestione, il solo pensare alla riconferma mostrerebbe come le logiche di potere e di una gestione finalizzata ad alimentare “catene corte” prevalgano su quelle di servizio e corretta amministrazione

Mentre un quarto dei lucani fa i conti con i rubinetti a secco, mentre le attività produttive devono chiudere per mancanza di acqua è imbarazzante che si ragioni intorno ad ipotesi di riconferma di chi ha determinato o ha massima responsabilità di questa situazione. Ne va della corretta gestione della risorsa acqua e degli equilibri economico-finanziari – che hanno visto il disastrato bilancio regionale doversi far carico delle falle della gestione Andretta. Ne va, forse ancor prima, della credibilità delle istituzioni nei confronti dei cittadini che avrebbero chiaro come nella scelta del management pubblico le logiche del potere e della gestione finalizzata ad alimentare “catene corte” prevalgano su quelle del servizio e della corretta amministrazione.

La necessità di una discontinuità, che parta dai nomi e dal sistema di gestione monocratico È QUESTIONE DI DIGNITÀ ISTITUZIONALE ED è talmente evidente che anche nel centrodestra ci sono prese di posizione nette. Perché se le reti di Acquedotto lucano fanno acqua, ancor più in questi anni l’ha fatta la gestione di una società che è stata capace di perdere decine di milioni di finanziamenti (39 solo quelli del programma React Eu) già assegnati per il rifacimento delle condotte.

Un danno evidente, reso ancor più pesante dai 50 milioni di perdite di gestione nell’ultimo triennio a cui dovrebbero sommarsi le perdite dei tanti operatori economici danneggiati dalla mancanza di acqua, su cui non si può far finta di niente o, peggio, costruire narrazioni su un fantomatico bonus acqua: la realtà è fatta di cittadini che, per le perdite, pagano due volte e mezzo quanto consumano (in termini di captazione, sollevamento, potabilizzazione e distribuzione) e rubinetti chiusi. E la stessa gestione della fase dell’emergenza – che sconta l’assenza assoluta di una programmazione che avrebbe potuto minimizzare gli effetti su cittadini e attività produttive – è qualcosa su cui stendere un velo pietoso.

Superare questa situazione è imprescindibile. Si mettano in campo nuove competenza, si affermi il principio della valutazione dei risultati. E si tragga una lezione per riaffermare il controllo pubblico su una risorsa essenziale e di tutti: serve un maggiore coinvolgimento dei sindaci, con una consultazione permanente, almeno semestrale, in cui una società che spende i soldi di tutti i cittadini dia conto di azioni, progressi e problemi.

 

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