La frontiera delle relazioni sindacali in Italia è sempre stata nel settore metalmeccanico, in particolare alla Fiat, da sempre catalizzatore per antonomasia di tutte le tensioni sociali, con tutte le vicende, anche drammatiche, che il movimento operaio ha dovuto fronteggiare.
Il sindacato con atti responsabili seppe resistere e isolare i tentativi di alcune frange estremiste di portare il conflitto sul terreno della lotta violenta. Oggi non c’è più questa condizione nella società (tranne alcuni rigurgiti cui prestare la massima attenzione). Però ogni volta che si rende necessaria una svolta, nei luoghi simbolo tornano i fantasmi dal passato. Non ci si rende conto, al di là della esposizione mediatica del caso (accordo e referendum Fiat), che oltre questo orizzonte c’è una situazione e una composizione della società profondamente mutata e diversa. Non fosse altro per alcuni dati di fatto di una certa concretezza: l’ossatura dell’economia italiana è formata principalmente da piccole e medie imprese; vi sono altri comparti produttivi che girano già da qualche decennio con regole contrattate sulle tematiche di cui si è tanto discusso in questi giorni. Considerata la particolare composizione delle aziende, la maggior parte dei lavoratori non gode dei benefici della grande azienda, ossia non ha una rappresentanza diretta sul luogo di lavoro e non ha nemmeno la contrattazione di secondo livello, dove si redistribuisce la produttività. Ergo, non conosce le strutture sindacali di rappresentanza, che incontra solo in caso di contenzioso. In alcuni settori merceologici la percentuale dei non rappresentati o rappresentati parzialmente tocca anche punte del 70 per cento. Nell’agroalimentare, ad esempio, abbiamo almeno due decenni di esperienze di contrattazione sui temi della flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro. Non è un caso che il primo contratto nazionale ad essere firmato dopo la modifica degli assetti contrattuali sia stato proprio quello dell’industria alimentare, tra l’altro firmato dalle tre federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil unitariamente. Grazie a queste intese, oltre alla possibilità di flessibilizzare l’orario e rendere più efficiente l’organizzazione del lavoro, si sono create le condizioni per relazioni sindacali più aperte e democratiche. Altro punto di forza è la possibilità di costituire in ogni settore gli enti bilaterali, che possiamo considerare un sottosistema della contrattazione sui temi comuni tra sindacato e impresa. Si tratta ora di verificare la volontà delle parti di renderla operativa e funzionale allo scopo. Questo ragionamento sugli enti bilaterali si interseca giocoforza con la necessità di diffondere la contrattazione territoriale o di filiera prevista nell’accordo del gennaio 2009. Le strutture nazionali del comparto alimentare in questi giorni hanno stabilito le linee guida su cui muoversi per avviare questa esperienza, il cui obiettivo è la vera scommessa per avviare una modernizzazione reale delle regole nel mondo del lavoro. Su questo terreno la Cisl in Basilicata è stata anticipatrice con scelte che hanno fatto epoca nelle relazioni industriali. Continuare a considerare l’impresa e il lavoro come due facce separate di un problema è un approccio profondamente sbagliato: impresa e lavoratori sono parte di un unico organismo, senza uno l’altro muore e viceversa. La proposta di Marchionne per una partecipazione agli utili dell’impresa va nella direzione più volte auspicata dalla Cisl, ma il paese si è mostrato sempre impreparato ad accogliere le necessità di innovare le relazioni e di capire la reale portata delle proposte. L’auspicio è che queste idee possano avere menti e gambe capaci di valorizzarne la carica innovatrice: ce lo chiedono anche quei giovani scoraggiati che il lavoro neanche lo cercano più, quegli stessi giovani che papa Woityla considerava il sale della terra. Oggi più che mai c’è bisogno di persone che abbiano a cuore queste cose per il bene di questo paese e delle generazioni future. Senza questi obiettivi il nostro lavoro si svuota di significato. Come titola Raffaele Bonanni nel suo libro, questo è il tempo della semina: sta a noi adesso arare il campo, controllare che il seme sia buono, seminare e coltivare la piantina fino al raccolto.
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