di Walter De Stradis
Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.di Walter De Stradis

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava…Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d – Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r – Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d – Eh, non poteva mancare!

r – Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d – È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r – Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d – Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r – Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d – Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r – In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d – Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r – Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d – E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d – Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r – Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d – Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r – No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d – Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r – Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.

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