«Special Olympics è un movimento internazionale nato in America nel 1968, per iniziativa della famiglia Kennedy. Eunice, sorella
dei più noti John e Bob Kennedy, osservò che una loro ulteriore sorella, affetta da disabilità, grazie al gioco e allo sport, faceva progressi.
Da lì, in poi, capì che l’attività motoria poteva essere fonte di autonomia per queste persone».
A parlare è Filippo Orlando, venosino, presidente di Special Olympics Basilicata, associazione che si occupa di persone affette da disabilità intellettiva. «Anche perché –prosegue- il tutto avviene in un ambiente in cui c’è assoluta libertà e ci si mette davvero in gioco con se stessi. A oggi,
Special Olympics ha un ruolo importantissimo nell’ambito della disabilità intellettiva, tant’è che siamo presenti in duecento paesi del Mondo e solo in Italia ci sono più di un milione di persone che partecipano ai nostri eventi».
In effetti, rispetto ad altri organismi presenti nella nostra regione, voi vi occupate di disabilità intellettiva, più che motoria.
Sì, Special Olympics è presente in Italia da più di quarant’anni, e da più di trenta nella nostra regione. Ovviamente la nostra attività va oltre quella sportiva vera e propria, in quanto creiamo tutta una rete di persone che si occupano anche del benessere della persona, più in generale. Accanto all’attività sportiva intervengono anche le famiglie, i volontari, i medici, un intero mondo che gira intorno all’atleta.
Il tutto, come accennavo, nell’ottica del raggiungimento di una maggiore autonomia del soggetto, laddove anche il risultato sportivo, ovviamente, non guasta. Nelle nostre gare c’è una sana competizione, più che agonismo vero e proprio, il nostro giuramento dell’atleta è infatti: “Che io possa vincere, ma se non riuscissi, che possa tentare con tutte le mie forze”.
Quante persone coinvolge il vostro movimento in Basilicata?
Parliamo di trecento atleti e di tantissime persone che intercettiamo anche in età scolare (dalla scuola dell’infanzia fino a quella di secondo grado), ma anche gli universitari possono essere nostri volontari. Difatti, cerchiamo di coinvolgere tanto le persone disabili quanto quelle non disabili, soprattutto per quanto riguarda gli sport di squadra. Abbiamo rilevato che facendoli allenare e giocare insieme riusciamo a fare entrare nel nostro mondo anche i ragazzi senza disabilità, un mondo fatto di inclusione reale, con la “U” maiuscola. Parlare, passare delle ore insieme a una persona affetta da disabilità, rende reale e concreta una cosa
di cui si parla spesso con retorica.
Interagire fa bene sia all’atleta disabile sia al cosiddetto normodotato.
Sì, perché c’è uno scambio. In particolare si percepiscono le difficoltà, ma anche le capacità del disabile, di cui solitamente si evidenzia ciò che NON riesce a fare. Noi di Special Olympics, invece, poniamo l’accento su ciò che i nostri atleti POSSONO fare: la maratona, il nuoto, le bocce, ma anche prendere un aereo, senza la famiglia, e andare a fare le gare.
Voi girate anche il mondo.Special Olympics ha una serie di opportunità, di giochi, come li chiamiamo noi (e non
“gare”), in cui alla fine vengono premiati tutti, non solamente quelli saliti sul podio. Anzi, a
volte ho visto più gioia negli occhi del sesto, settimo, che in quelli del primo, perché comunque il tutto rappresenta un percorso di sport e di vita non indifferente. E, sì, ci sono giochi regionali, interregionali, nazionali e mondiali.
Usciamo dalla recente esperienza dei Mondiali in Germania (con 120 atleti italiani) e stiamo preparando i Giochi Mondiali degli sport
invernali che si terranno l’anno prossimo in Piemonte. Quest’anno abbiamo dei “Play the Games”, che si sostituiscono ai giochi nazionali, da farsi qui a Matera dal 23 al 26 maggio.Qual è la vostra soddisfazione maggiore?
Qual è quel momento in cui ci si rende conto di aver fatto realmente qualcosa di utile per
gli altri?Il primo segnale è quando il ragazzo esce di casa. Se in età scolastica il giovane passa la
maggior parte del tempo in classe, in età successiva la sfida maggiore è proprio quella di
farlo uscire di casa e farlo partecipare ad attività in cui è prevista la presenza -in palestra, in piscina etc- di altre persone, con le quali mettersi in gioco. Abbiamo visto persone che avevano paura del gatto e che dopo un certo percorso sono andate a cavallo; famiglie che
erano restie a far uscire i loro figli di casa, per poi piangere quando li hanno visti percorrere
dieci metri di corsa.
Quindi questo è un processo che fa bene anche alle famiglie. Lei ha parlato, per alcune
di esse, di “resistenza”, si tratta di iper-protezione nei confronti dei figli?…
Sì, principalmente di quello, è difficile mettersi
in gioco, si ha paura –a differenza di quanto
può accadere con un figlio normodotato- a
mandarlo fuori per qualche gara. Non perché ci si vergogna…
No, no…anche se, beh, in alcuni casi, ho trovato anche questo. Alcuni anni fa accendemmo la fiaccola olimpica a Metaponto, attraversammo trentadue comuni lucani, per poi arrivare a Melfi per i giochi d’equitazione. Beh, in alcuni comuni abbiamo dovuto eliminare la tappa perché i familiari non volevano scendere in piazza con i loro figli. Pertanto, c’è ancora molto da lavorare. Sono passati molti anni da
questo episodio, tuttavia debbo dire che…proprio il mese scorso ho fatto un altro incontro in un comune lucano e i genitori li ho visti nuovamente molto restii a far partecipare i ragazzi.
Eppure abbiamo detto che partecipare, condividere, aprirsi, fa bene a tutti, ai ragazzi come alle famiglie.
Di più, le famiglie “virtuose” possono entrare nella schiera dei nostri volontari, che poi andranno a occuparsi di altre discipline, che non interessano i loro figli: cerchiamo infatti di fare in modo che possano mettersi a disposizione di
tutti, non solo dei propri congiunti.
Quali e come sono i rapporti con le istituzioni locali?
Il rapporto è buono, per il semplice fatto che basta vedere il nostro operato, le cose facciamo, per avvicinarsi a noi. Quello che ci aspettiamo dalle istituzioni, però, è che non ci sia solo la semplice presenza all’evento, bensì un percorso di reale accompagnamento in quello che facciamo.
In soldoni: “Non vi fate vedere solo quando ci sono i fotografi, ma anche prima”.
E questo si può fare, perché la nostra è un’associazione che va avanti con fondi che riceviamo dai vari partner, dagli sponsor privati o
dalla sede centrale.
Dalle istituzioni soldi non ne ricevete?Facciamo, di volta in volta, delle richieste di contributo e patrocinio, ma molte volte si tratta più di patrocinio che di contributo. Ci vorrebbe in realtà, come accade in altre regioni, un fondo riservato a questo tipo di attività. Lo
sto chiedendo da tempo, siamo sempre lì lì per concludere, ma poi non se ne fa niente. Tuttavia, io ci credo, perché ho visto cosa significa fare sport per una persona con disabilità intellettiva. Queste persone, infatti, hanno bisogno
di noi, di coloro che stanno attorno, che si fanno portavoce dei loro problemi, che non sempre –a differenza delle persone con disabilità
fisica- riescono a esprimere.
C’è un episodio che l’è rimato impresso o che comunque può essere simbolico di ciò che stiamo dicendo?
Non c’è un episodio solo. Ciò che io mi porto sempre dietro è l’affetto che queste persone ci trasmettono, ma anche la loro voglia di fare, di superarsi, di dimostrare che loro POSSONO, che insieme ce la possiamo fare. In tutto ciò che facciamo, il ragazzo si confronta con se stesso, da solo. Non c’è di fianco un genitore che gli allaccia le scarpe, poiché se ne sta sugli spalti, a vedere il figlio che gareggia. Alla fine, come le dicevo, è comunque una vittoria. E questa vittoria noi operatori ce la portiamo dentro ogni volta, e ci dà la carica per andare avanti.
DI WALTER DE STRADIS

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