Il loro simbolo è il “taste vin”, ovvero quello piccola ciotola, in argento o metallo argentato, che portano al collo. Serve ad assaggiare, ma i sommelier oggigiorno sono anche e soprattutto degli “story-teller”, a cui spetta il compito di raccontare un intero territorio, attraverso il suo vino.
Dal 2018, Presidente regionale dell’Associazione Italiana Sommelier (la cui prima incarnazione lucana risale agli anni Settanta del Ventesimo Secolo) è Eugenio Tropeano.
d – Presidente, chiariamo innanzitutto cos’è, più precisamente, un sommelier, che nell’immaginario comune è quel tizio elegante che assaggia e poi ti serve il vino a tavola.
r – Sì, è importante chiarire perché la figura del sommelier si è modificata negli anni. In effetti è comunemente vista come colui che, in un ristorante, assaggia e consiglia il vino, roteando il bicchiere etc.. Tuttavia, oggi il sommelier è più che altro un esperto di vino, dotato delle competenze per comunicare, per raccontare il territorio attraverso un bicchiere, ovvero le storie di vigne, di produttori, di tradizioni. Insomma, è un po’ un ambasciatore. Un comunicatore.
d – La vostra associazione di quanti sommelier consta in Italia? E in Basilicata?
r – Nata nel 1965, è la più antica del Paese. A livello nazionale abbiamo circa 50mila soci, in Basilicata oscillano tra i trecento e i quattrocento. La nostra è un’attività di formazione molto importante: negli ultimi dodici anni sono passati per i nostri corsi mille, millecinquecento persone.
d – Si tratta di corsi per ottenere il “patentino” di sommelier…che possono poi tradursi anche in sbocchi lavorativi?
r – Questo è un aspetto importante. Tanti si avvicinano ai corsi per pura curiosità o passione per il mondo del vino, ma moltissimi giovani la vedono come un’occasione lavorativa, perché il “food & beverage” come settore sta crescendo. Ma non stiamo parlando solo di personale di sala, bensì anche di influencer, di blogger: aver fatto un corso da sommelier ti dà le competenze per parlare e scrivere di vino in maniera più professionale. Alcuni la chiamano addirittura “liturgia”, ma un sommelier deve saper descrivere un vino anche con una certa eleganza, un certo savoir-faire. Occorre quindi conoscere perfettamente i territori, i vitigni, i vini. Sarebbe troppo facile dire soltanto: “Questo vino è buono”.
d – Mi tolga una curiosità da profano: cosa diavolo vuol dire “gusto fruttato”?
r – (sorride) E’ una delle sensazioni che il vino dà, dal punto di vista olfattivo/gustativo. C’è anche il “floreale”, l’ “erbaceo”, tutta una serie di profumi,
d – Ma come fa un vino a sapere di fragola?
r – Non c’è la fragola. Il punto è che, nel processo di fermentazione in cantina, si sviluppano una serie di profumi che possono ricordare la frutta rossa, i fiori, i vegetali etc.
d – A tavola lei ci ha portato la “Guida Vini 2024”, realizzata dall’Associazione, con un capitolo, ovviamente, dedicato alle DOC nella nostra regione.
r – Abbiamo recensito trentasei cantine lucane (che in totale sono molte di più, ma abbiamo valutato quelle che ci hanno inviato campioni o si sono prestate alla nostra analisi). Invece di attribuire “stellette”, ci sono le “viti”, in un massimo di quattro. I vini che ci arrivano vengono degustati, anonimamente, a scatola chiusa, da un panel di esperti che poi attribuiscono un punteggio attraverso una nostra scheda di valutazione. Se si ottengono più di 91 punti, viene attribuita l’eccellenza (le quattro viti). In questa edizione, su oltre centocinquanta vini assaggiati e su trentasei cantine, abbiamo a queste ultime assegnate in tutto tredici eccellenze.
d – Non c’è solo l’Aglianico…
r – No, non solo, anche se fa un po’ la parte del leone, avendo il maggior numero di cantine. Grandi passi in avanti li ha fatti la DOC di Matera, che vanta ben due eccellenze, col vitigno simbolo che è il Primitivo.
d – Nella mappa della Basilicata pubblicata sul vostro libro, vedo che c’è un’area viola, a Nord, riferita all’Aglianico del Vulture; una orientale, verde, che fa capo a tutta la provincia materana; più in basso e più al centro c’è quella azzurra del Grottino di Roccanova; e infine, più verso Ovest, c’è una piccola area verdina, che indica le Terre della Val D’Agri. Tutto il resto, la grossa parte occidentale, è tutta in grigio. Perché?
r – Quella è un’area dove il vino si fa, ma non è classificato DOC, bensì IGP, che è comunque una classificazione europea, più a maglie larghe, che identifica tutte le uve che seguono quel disciplinare
d – Ma che momento vive il vino lucano, anche e soprattutto dal punto di vista del mercato?
r – Se dobbiamo parlare di qualità, essendo giunti alla decima edizione di questa Guida e avendo assaggiato tanti vini, posso testimoniarne un costante innalzamento. Ormai i nostri produttori fanno vini di altissimo livello, che non hanno nulla da invidiare alle etichette più blasonate delle altre regioni. Il vero problema è la conoscenza, farli conoscere. D’altro canto, il periodo che sta vivendo la viticoltura, come l’agricoltura in generale, non è facilissimo. Usciamo da un’annata molto complicata, con gli attacchi della peronospera e della siccità, che certamente hanno avuto impatti anche economici sulle aziende; senza contare la difficoltà nel reperimento della manodopera, i costi legati a pandemia e guerra (il vetro). Tuttavia, il vino ha in sé un carattere di resilienza molto forte e nel panorama agroalimentare lucano è comunque un fattore trainante. Essendo un simbolo del territorio, si tira dietro anche altre produzioni, quelle olivicole, i salumi, i formaggi. E ha anche un valore molto attrattivo, anche più alto rispetto ad altre produzioni nostrane.
d – Può diventare quindi anche un attrattore turistico reale?
r – Certo, ed è un discorso che si innesta anche molto bene con la figura del sommelier, così come l’abbiamo descritta poc’anzi. In quanto comunicatore, infatti, si sta sempre più proponendo come figura intermedia tra le aziende e colui che può accompagnare i cosiddetti “eno-turisti”. E’ un settore del turismo, questo, che in Italia movimenta molti milioni di euro, che va alla ricerca di cantine, vine e cibi: per intenderci, in Francia, l’accoglienza dei turisti rappresenta circa la metà del fatturato delle aziende vitivinicole, più ancora della vendita del prodotto stesso. L’Italia si sta aprendo a questo, e la Basilicata, che già gode di un’immagine di regione dove si mangia bene, dove c’è poco inquinamento etc., ha grandi possibilità. Il sommelier è la figura ideale per raccontare e accompagnare queste cose.
d – Lei ha detto che il vino va raccontato, ma cosa ci racconta, il vino lucano, del nostro territorio e del suo popolo?
r – Si tratta di tradizioni antichissime, avendo il vino accompagnato l’uomo in tutta la sua civiltà, da duemila anni prima di Cristo: gli Enotri, la Magna Grecia, i Fenici, gli Etruschi. Se ci concentriamo sull’Aglianico, che è un po’ il nostro vino-simbolo, ci rendiamo conto che racconta anche un po’ la storia del Lucano, perché coltivare questo vino è molto, molto difficile. I produttori di Aglianico si possono definire eroici, perché quello è un vitigno molto tardivo, che matura molto tardi, a fine ottobre e novembre, tra l’altro in collina e in zone non meccanizzabili; il che comporta andare a vendemmiare con condizioni climatiche avverse, anche col rischio che non vada bene. Rispecchia quindi il carattere del lucano, tenace e con duro lavoro.
d – In conclusione, quale vino lucano consiglierebbe al nostro Presidente del Consiglio e perché?
r – Mi faccia fare una battuta. Si dice che i Presidenti del Consiglio, dal punto di vista della durata, abbiano vita politica breve. Quindi consiglierei l’Aglianico, la cui caratteristica è proprio la longevità, dura tantissimo. Lo consiglierei dunque per ragioni scaramantiche.
di Walter De Stradis
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