Il sindacato riformista è entrato in una fase epocale da cui dipende non tanto il suo futuro quanto quello dei lavoratori e del Paese.Il punto di partenza: i lavoratori, come tutte le persone normali, si interrogano chiedendosi se i cambiamenti in atto sono positivi o negativi, utili o non utili, e su come è possibile reagire.
Se coloro che si sono assunti il compito di dare delle risposte ed offrire delle soluzioni sono i primi ad essere impauriti, come si può pensare che i lavoratori possano essere aiutati a capire come vanno le cose? I gruppi dirigenti esistono per dare delle risposte, non per aumentare le domande e l’incertezza.
Dunque se le difficoltà sono abbastanza oggettive, si tratta di produrre dei cambiamenti e questo impone di avere un’idea sufficientemente chiara della direzione verso cui questi cambiamenti spingono. E quindi avere anche la capacità di adeguare risposte diverse ai problemi che magari sono sempre gli stessi: come proteggere le persone e che tipo di regole nuove ci vogliono ai fini di conservare la missione del sindacato, che è quella di rappresentare le persone. Il problema vero è che bisogna farlo con metodologie diverse da quelle che sono state sperimentate in passato e tenendo conto della grande novità della globalizzazione.
La Cgil è traumatizzata dalla globalizzazione. Ora, non tutti i cambiamenti sono di per sé positivi, ma sicuramente l’ultima scelta che bisogna fare è quella di essere dei conservatori nel senso più classico del termine. Cosa fanno le persone conservatrici o le persone molto anziane? Parlano solo del passato, di com’era. Tutto ciò che è nuovo è pericoloso, sbagliato, non va bene. In un’organizzazione così timorosa dei cambiamenti, si aggiunga la perdita di centralità dello Stato nazionale a cui la Cgil era ideologicamente attaccata ed il rischio di tornare al sindacato della contestazione e dello sciopero sempre è dietro l’angolo.
Ed ecco l’autentica missione del sindacato riformista: i sindacati locali devono piano piano perdere caratteristiche e aspetti centralistici nel modo di organizzare le relazioni sindacali. Anzi, il sindacato nel suo complesso, tout court, dovrebbe farlo. Venti anni fa ciò aveva un senso, oggi non ne ha nessuno. E’ un problema di pigrizia mentale o di strutture di potere banali all’interno delle organizzazioni sindacali. L’articolazione territoriale o aziendale è un’utile necessità. Questo è un concetto che, almeno dentro la Uil, è stato perfettamente compreso e si procede senza drammi, perché è una cosa che abbiamo a lungo discusso, pensato, elaborato e dibattuto, da molti anni. E quindi oggi siamo nella condizione di applicare tutto come una buona pratica che abbiamo meditato e, per certi versi, voluto. Noi, a differenza di altri, da 10 anni chiediamo di cambiare il modello contrattuale rispetto a quello iper centralistico che avevamo prodotto all’inizio degli anni ’90, allora necessario.
E finalmente poi ci siamo riusciti, con un po’ di fatica. Non abbiamo subito nessuna riforma, l’abbiamo rivendicata per molto tempo, proprio come la legge delega sullo Statuto dei lavori, la cui bozza ci è stata inoltrata dal ministro Sacconi. Si tratta di un cambiamento di impostazione: lo Stato fa un passo indietro e cerca di coinvolgere la cosiddetta società civile, in questo caso – parlando di lavoro – le parti sociali, nella definizione di regole nuove. Che è esattamente ciò di cui c’è bisogno, di fare regole nuove e di non illudersi che ci siano degli illuminati che possiedono delle risposte. Le risposte nuove possono essere trovate solo attraverso il coinvolgimento delle persone che vivono questi problemi, come le parti sociali. Un tempo le regole sul mercato del lavoro venivano decise dai Parlamenti. La conclusione è che queste risposte non possono essere date dallo Stato: il coinvolgimento delle parti sociali non è solo un’idea condivisibile, ma anche molto moderna, corrispondente ai nuovi assetti della società.
E il coraggio riformista non conosce ostacoli per questo la Uilm è disponibile a trattare con Federmeccanica per realizzare una disciplina ad hoc per il settore auto, così come chiede la Fiat, attraverso un confronto che sia utile a individuare una specifica disciplina per il settore auto, così come previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro del 20 gennaio 2008 (quello firmato unitariamente, anche con la Fiom). Abbiamo dato il nostro assenso al progetto Fabbrica Italia perché consente di mantenere dei posti di lavoro e la produzione di auto di un certo livello. Poi nell’ambito del contenuto degli accordi è necessario che, alle richieste della Fiat, segua la disponibilità ad un incremento dei salari dei lavoratori.
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