farmacista professore, avvocato, sindaco, ragioniere, senatore, deputato, consigliere; se sei cancellarese, un po’ di salsiccia a qualcuna di queste persone la devi pur dare, specie se ti ha fatto un favore (o simili).
Il professor Giuseppe Biscione, già docente di lettere, “battezza” l’intervista con i versi di una sua poesia dedicata, ovviamente, alla salsiccia di Cancellara (Pz), e agli aspetti “socio-politici” del goloso salume. Biscione, infatti, da diversi anni dedica la sua attività di scrittore, poeta e saggista principalmente al recupero della memoria, della tradizione e del dialetto del suo paese d’origine, che –a suo dire- può essere sì specchio di una certa realtà comune a tutta la Basilicata, ma con qualche…”aggravante”.
D – In questa poesia ci sono due punti che trovo molto interessanti. Il primo è questa sorta di “maledizione”, cioè il dover regalare, in quanto cancellarese, la salsiccia un po’ a tutti, specie per ricevere favori. Quanta salsiccia è circolata per queste ragioni?
R – Tanta, tanta, perché poi il cancellarese -e non so se è un pregio- si affida molto agli altri; e per ricevere favori che cosa può dare di buono se non il salame di Cancellara? Diciamo che è quasi una forma di baratto.
D – Quindi è lecito pensare che sia professionisti sia anche amministratori e politici abbiano mangiato la salsiccia di Cancellara.
R – Sicuramente. Io stesso ho fatto mangiare un appuntato barese per non fare il militare, e ci sono riuscito grazie alla salsiccia.
D – E poi c’è un altro punto importante che lei tocca verso la fine della poesia: ci sono degli eventi dedicati alla salsiccia cancellarese (la sagra di san Biagio il 3 febbraio e il festival che cade al settembre), ma poi il paese si svuota.
R – Il paese sta morendo. E’ in atto proprio un esodo e anche quei giovani che risiedono ancora a Cancellara, per strada non si vedono (ormai lavorano -o meglio giocano- o studiano in casa). Quando ero giovane io, eravamo in tanti per strada, mentre adesso non c’è più nessuno e sono rimasti gli anziani. I figli degli emigrati non ci vengono più, perché non trovano più i nonni. Non hanno più nessun motivo per ritornare al paese delle radici e delle origini.
D – Questo è un ritratto che si può adattare a moltissimi -se non a tutti- i paesi lucani.
R – A Cancellara ancora di più. Nella vicina Oppido, per esempio, c’è già più vita. Noto che ci sono maggiori manifestazioni, anche culturali, nei paesi limitrofi. A Cancellara c’è una sorta di apatia, e io cerco di smuovere culturalmente attraverso queste pubblicazioni.
D – Freschissimo di stampa, non ancora presentato, c’è questo “L’astinenza, l’anello, la patrùna: tre commedie al femminile nel dialetto di Cancellara”, tratte da Aristofane, Terenzio e Goldoni.
R – “L’astinenza” è un adattamento da Aristofane. Il testo originale parla delle donne ateniesi e spartane che optano per la castità, pur di convincere i mariti a porre fine alla guerra. Io ho trasportato questi avvenimenti nell’ambito ristretto cancellarese, laddove è capitato -in passato- che famiglie intere non si parlassero più per colpa della politica. E nella mia versione è la moglie del sindaco in primis a convincere tutte le donne a non concedersi più, fino alla fine delle ostilità. “L’anello”, da Terenzio, presenta un riscatto della signorilità sia della nuora sia della suocera (spesso figure vituperate). Ne “La patrùna”, tratta da Goldoni, ci sono tutti gli stessi personaggi del “La locandiera”, ma spostati da Firenze a Cancellara. La motivazione alla base del libro è quella di abituare i ragazzi alla recitazione, al teatro, e in più, riscattare le donne che si sono sentite offese da una mia precedente pubblicazione.
D – Infatti, a microfoni spenti, mi accennava a quel suo libro, “Proverbi detti e sentenze, una bibbia laica tramandata in dialetto”…
R – Nel testo c’è una sezione riservata alle donne e al matrimonio e quindi c’è tutta una successione di proverbi “in negativo”; e così parecchie signore, dopo la presentazione, nel farsi mettere la dedica sul libro si lamentarono di essere state “maltrattate”. Io, ovviamente, feci presente che si trattava di proverbi tramandati dagli antenati, non certo opera mia. E allora ho cercato di rifarmi con queste tre commedie al femminile.
D – Tra l’altro, lei mi diceva che detti e motti locali sono un po’ tutti uguali in Basilicata.
R – Non solo! Ci sono proverbi che si ritrovano anche in Germania, in Francia. Questi proverbi hanno di solito due tipi di derivazione: ci sono quelli tramandati oralmente dagli anziani, ma anche quelli che sono ripresi da frasi, da citazioni di autori universali (Cicerone, Sallustio); sono rimasti nelle orecchie di chi le ha sentiti, sono stati tramandati e si sono riversati via via in Cancellarese, Oppidano, Acheruntino, così come si ritrovano persino in Friuli.
D – Ma perché questi vecchi proverbi maltrattano le donne?
R – Beh, prendiamo quel detto che si può tradurre con “Femmine, ciucci e capre hanno tutti la stessa ‘capa’”. O “chi dice donna dice danno”. Sono il frutto di una misoginia che era tipica del passato. Basti pensare a come erano trattate le donne greche, che non potevano partecipare a certi eventi etc; il guaio è che questa cosa ancora persiste, nonostante tutto il rumore che si fa per il femminismo. Margherita Hack diceva che bisogna ammirare Eva, piuttosto che denigrarla come causa del peccato originale, perché era comunque una donna curiosa.
D – Il suo libro d’esordio è stato “Parole per non dimenticare”, una sorta di dizionario cancellarese…
R – E’ un dizionario, però sui generis, ove ci sono indicazioni sulle origini delle parole (molti vocaboli nostri derivano dal greco, ad esempio). E’ quello a me più vicino affettivamente, perché molte parole -alcune riportate anche in copertina- me le scriveva mamma per darmi un numero di termini su cui ragionare.
D – Lei è d’accordo con quello che ci ha detto la professoressa Del Puente, ovvero che salvaguardare il dialetto significa non far sparire alcune cose, perché se sparisce la parola, sparisce dalla memoria anche l’oggetto o il concetto a cui si riferisce?
R – Con la Del Puente sono d’accordo su tutto, specialmente sul suo accanimento in positivo per il dialetto lucano; ha fatto tanto e sta facendo tanto, anche se non è ben sovvenzionata. Diciamo che la parola dialettale è “plastica”: se dico “salita” o se dico “discesa”, io so cosa significa, ma non vedo, non immagino. Se invece dico “cap’ a mont’”*, mi figuro con la testa verso il monte; se dico “cap’ abbadde”*, vedo la testa verso la valle. Quindi c’è plasticamente la raffigurazione del significato di quei significanti. Nel dialetto c’è tutta la nostra storia.
D – Quindi non si tratta di recuperare parole, detti e proverbi solo in chiave “museale”. Come spiegare a un giovane di Cancellara che il suo dialetto è importante, persino utile?
R – Io l’ho fatto anche insegnando il Latino. Dicevo ai miei studenti, ad esempio, che “discrimen” è sì una parola latina, ma che loro ce l’avevano tutti in testa: la scriminatura! Ho utilizzato il volgare per far capire che è attuale, anzi, che è molto più vicino alla nostra lingua madre che l’Italiano stesso. Ad esempio, nel cancellarese non c’è il condizionale (“veness’ se putess’”*), ma il condizionale non c’è neanche in Latino. Così come il tempo futuro non esiste in cancellarese: non dico “verrò”, ma “aggia venì”* cioè “devo venire”. Dunque il cancellarese molto spesso serve pure per capire la dinamica della lingua.
D – Perché, secondo lei, non esiste il tempo futuro in diversi dialetti lucani? Può suonare come una metafora?
R – Mmm…perché siamo fatalisti, evidentemente; “così deve andare”, diciamo noi. Non ci sono slanci, proiezioni in quello che sarà, perché francamente non abbiamo la strada spianata.
*l’ortografia è dello scrivente
WALTER SE STRADIS