E’ parroco della chiesa di “SS. Pietro e Paolo” da meno di cinque anni, ma lui in quel quartiere (Rione Francioso, a Potenza) c’è cresciuto, e quella parrocchia l’ha vista nascere, a metà anni Settanta. Prima di entrare in seminario, ci racconta, ha lavorato a lungo, cominciando da ragazzino, come garzone in una salumeria. Don Antonio Palo, insomma, è uno che la vita la conosce bene, e forse anche per questo, da ben quindici anni, è protagonista di un intenso dialogo con i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Potenza, ove ricopre il non facile ruolo di cappellano. d – Una decina di anni fa, da cappellano della chiesa “del Risorto”, situata presso il cimitero di Potenza, lei salì agli onori della cronaca per avervi celebrato un battesimo. Sempre in quel periodo, un’altra notizia che la riguardò fu il suo rimprovero rivolto a una giovane che si era presentata al cimitero indossando dei pantaloncini, a suo dire, troppo corti. r     – Senza arrabbiarmi, le feci notare che non era opportuno presentarsi così. E oggi lì non farei solo un battesimo, ma anche dei matrimoni. In realtà già allora molte coppie me lo chiedevano; io facevo presente che, in quella location, le foto non sarebbero state il massimo, e loro ribattevano che il matrimonio sarebbe avvenuto in una chiesa, e non al cimitero. E magari per loro era anche un modo di omaggiare i parenti che riposavano nei pressi. Ho però dovuto sempre declinare, per ragioni burocratiche (la chiesa all’interno del cimitero monumentale fa comunque parte della parrocchia di San Rocco). d – E in merito alla questione del vestirsi in modo “appropriato” nei luoghi di culto, la situazione è peggiorata secondo lei? r – Sì, tantissimo. Non ho bisogno di andare al cimitero per ritrovarmi in simili circostanze. Di solito, con educazione, faccio notare che c’è una sacralità (anche se in quel famoso caso i giornalisti gonfiarono). Ma, come accennavo, oggi è sufficiente recarsi a un matrimonio, o che il termometro salga sopra i ventitré gradi, affinché anche nella messa domenicale “si sfori”. E io la ringrazio della domanda. Pensi che oggi, nella mia chiesa, ci sono signore ortodosse dell’est, badanti, che durante la messa indossano il velo. d – E lei se lo aspetta anche dalle parrocchiane del quartiere? r – Non è che me lo aspetto, ma sarebbe bello. Da un velo in testa, capisci che c’è una coscienza del sacro: non puoi presentarti in mezze maniche. Non c’è nulla di cattivo, di rigoroso o di estremista in questo mio desiderio. anzi, se dovesse succedere, sarebbe un richiamo anche per me. Non lo chiedo, ma mi farebbe piacere. d – Lei, da quindici anni, è anche cappellano al carcere minorile… r – “PIM, Istituto Penale per i Minorenni”. Sostituisce quello che una volta era il riformatorio di Avigliano. d – C’è una cosa che, in tutti questi anni, i ragazzi hanno insegnato a lei? r – Una cosa sola sarebbe poca. Sa, all’inizio della detenzione, sono tutti ancora un po’ “infuocati”, però poi, a un certo punto, ti fanno capire cos’è la paternità. Proprio così. Loro la cercano, questa figura, perché probabilmente non l’hanno avuta. E questa cosa contrasta un po’ col prete messo sempre un po’ alla gogna perché “non sa cosa vuol dire essere genitori”. I ragazzi che sono lì detenuti, ti aspettano, e tu capisci qual è la responsabilità dell’esser padre: attendono una tua parola, e tu gliela devi dare. Magari il giovane ti racconta per dieci volte la stessa cosa, ma da te si aspetta una risposta diversa ogni volta, e tu gliela devi dare. Per me è una vera e propria presa di coscienza, questa. d – Immagino intrattenga anche rapporti con ragazzi che sono usciti e sono diventati adulti. r – Certamente. Tenga conto che si esce da un percorso fatto di lavoro di equipe (a cominciare dalla direttrice Angela Telesca, per arrivare alle educatrici e agli agenti di polizia penitenziaria). La cosa più simpatica è che, una volta che sono usciti fuori, ti capita di incontrarli “da uomo a uomo”, per prendere un caffè al bar. Non pensavi mai potesse accadere, e invece sei lì al bar a parlare, non del passato, ma del presente e del futuro. E magari, in quella occasione, se prima non l’avevano fatto, loro prendono piena coscienza di cosa significa essere un sacerdote e di tutti gli impegni che questo comporta. d – Sono episodi che rappresentano la speranza. r – Eccome. Specie in un mondo che getta la spugna. Con loro, per la verità, non è sempre facile, e possono scoraggiarti, ma io mi dico: se non porto loro la speranza, che ci vado a fare? C’è un luogo comune, su questi ragazzi, che si può sfatare? r – La ringrazio anche per questa domanda. Innanzitutto le parole sono importati: io parlo sempre di “istituto” e mai di “carcere”. Poi ci sono i ragazzi che hanno maturato la possibilità di avvalersi di alcuni permessi e vanno a lavorare fuori: tuttavia mi dicono sempre che si sentono percepiti come dei “detenuti messi alla prova”, a mai come “camerieri”, “muratori”, etc. Questo è da sfatare. Per me sono “i ragazzi”, per voi fuori sono “i detenuti”. Già cambiando il linguaggio, si può infondere speranza. d – Veniamo alla situazione del suo quartiere, rione Francioso. I costanti report della Caritas diocesana (Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo) parlano in generale di una povertà “sociale” in crescita, vale a dire solitudine e abbandono. r – Nel quartiere c’è un alto tasso di persone anziane, in pensione, che stanno a casa. Ahimè, di funerali ce ne sono. La prima generazione del quartiere –nella quale sarebbe stato compresa mio padre- ormai sta sparendo. Io abito nel quartiere dal 1968 e lo conosco come le mie tasche, al pari della storia della chiesa. Registro però una sorta di ritorno: le tante case sfitte o vuote cominciano a essere vendute. Attualmente ho ottanta bambini al catechismo. Ciò, però, non toglie il problema degli anziani soli, che sono quelli con i figli andati via da Potenza. A volte finiscono nelle case di riposo. Nella nostra parrocchia, l’assistenza Caritas c’è, ma aiutiamo anche persone che provengono da altri quartieri (anche perché siamo in contatto con le parrocchie vicine). C’è poi il discorso “dignità”: ci sono dei casi di indigenza, ma non vengono fuori, anche se noi abbiamo un centro di ascolto con operatori professionali. A volte, c’è anche una cattiva gestione della povertà: capita di imbattersi in persone che chiedono aiuto, e però poi scopri che in casa hanno una Tv 55 pollici da milleduecento euro. Il fatto che lo paghino a rate non cambia di una virgola il discorso. E allora, di fronte a tali situazioni, devi fare il “muso duro”, e ne esci pure con le rossa rotte, perché poi ti accusano di non voler aiutare. d – Alla politica locale, invece, cosa chiederebbe? r – Beh, basta arrivare alle otto di mattina, per capire che in piazza Francioso c’è un problema parcheggi. Il Comune ha investito nei giardinetti di Via Nazario Sauro, ma attorno alle dieci di sera, è possibile vedere dei diciottenni che ci giocano e che prima o poi li romperanno. Si rende quindi necessaria la manutenzione (e una telecamera), ma anche creare una coscienza. E come si fa? Certi genitori mi portano i bambini al catechismo, ma esigono che escano prima per non fare tardi al calcetto! Sa, il figlio deve diventare titolare, e allora… d – Adesso diranno che la chiesa dà la colpa alle famiglie. r – Non do colpe, ma guardi, alcuni genitori mi contestano i quindici euro per l’iscrizione al catechismo (comprensiva di colori, carta, materiale ludico), ma poi spendono centottanta euro al mese per far giocare i figli al pallone. d – Concludiamo con qualcosa da dire al governo regionale. r – Senta, abbiamo innanzitutto stravolto i nostri confini naturali (“Vallo della Lucania” non si chiama così tanto per, e discorso simile si può fare per la “Gravina” di Matera). Ma ormai, quando si parla di Potenza, si parla di Campania, e con Matera si parla di Puglia. E pertanto, se dico alla politica lucana “Ridateci la nostra Basilicata!”, ci fanno una bella pernacchia in faccia. Quindi, cosa chiedere più alla politica? Hanno scavato la Val D’Agri…e quando i petrolio sarà finito cosa ci rimarrà dei pozzi? Chi andrà più a piantare da quelle parti? Eppure questa era stata un’esperienza già collaudata come fallimentare, basti pensare a Pisticci, alla Liquichimica di Tito Scalo. Non contenti, abbiamo scavato la Val D’Agri per il petrolio. E adesso, lei, mi domanda cosa chiedo alla politica???”.       di Walter De Stradis

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